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I seicento ospiti illustri di casa Forattini
I primi cominciarono ad arrivare una cinquantina di anni fa. Provenivano dal mercatino delle pulci di Porta Portese. E poco dopo dagli antiquari di tutto il mondo. Uomini, donne, bambini, di ogni età e di ogni epoca: una processione continua e costante che pian piano ha creato un assembramento di millecinquecento persone. Giorgio Forattini le ospita a casa sua, nei tre appartamenti di Roma, Parigi e Milano che divide con la moglie Ilaria. La maggior parte, circa seicento, sono sistemate al quinto piano di un palazzo umbertino a due passi dal Vaticano. Ormai il famoso vignettista è abituato a vivere con tutti quei volti che lo osservano in ogni momento della giornata, con sguardi altezzosi o malinconici, pieni di malizia o di sussiego.


Alcuni lo fissano dritto negli occhi, altri sembrano ascoltare distrattamente le sue conversazioni con gli amici. Occupato ogni centimetro delle pareti alte più di quattro metri, questi ospiti bidimensionali hanno cominciato a prendere possesso del grande biliardo in legno intarsiato e ad assediare la stufa in maiolica bianca con decorazioni neoclassiche recuperata in Alto Adige. Si sono arrampicati sulla scala che serve la libreria soppalcata. Sono entrati perfino in cucina e nel bagno. Gli ultimi arrivati sono ancora distesi sui divani, in attesa di trovare una collocazione fissa da qualche parte. Ormai sono come parenti stretti. Per entrare in questa grande famiglia c’è però una regola: bisogna essere re o regine, ufficiali o nobildonne, poeti o prelati, pittori o flosofi celebri. Bisogna insomma appartenere a un ceto sociale di un certo livello. Non conta l’artista che li ha ritratti. Spesso si tratta di quadri ad olio ma senza firma, altre volte di acquerelli o disegni, perfino di stampe recuperate dalle pagine di vecchi libri. «Devono comunque essere dei signori che rappresentano un’epoca», precisa Forattini. «Mi interessa vedere come erano vestiti, come si pettinavano. Guardi quella bambina lassù, con l’abitino di seta e merletti, la testolina piena di boccoli. In realtà è un piccolo principe Savoia di tre secoli fa, vestito da femmina come si usava allora per i bambini, ma con la spada impugnata nella sinistra».


Una volta Forattini ne conosceva il nome, oggi l’ha dimenticato, insieme a quello ditutti gli altri. Nella folla si individuano un Giuseppe Verdi, un Napoleone, un Murat. Perfino un paio di Forattini in colletto alto e jabot, ma sono due sosia d’altri tempi: uno è sconosciuto e l’altro è Bertel Thorvaldsen, lo scultore danese vissuto a Roma ai primi dell’Ottocento. Si scopre anche, nelle sembianze di un signorotto di fine Settecento, una copia perfetta di Alberto Ronchey, che fu ministro dei Beni culturali vent’anni fa. E un signore preciso identico al nostro collega giornalista Gian Antonio Stella. Ma anche lui di un altro secolo, in giubba di fustagno e tavolozza in mano, forse un «macchiaiolo» pronto per la pittura en plein air. Forattini ha perso memoria del primo acquisto. «Ricordo che fu a Porta Portese, negli anni Sessanta. Si trovavano ancora a poco prezzo antichi ritratti a olio. A quel tempo non avevo tanti soldi. Iniziai la collezione con parsimonia. Poi, quando cominciai a guadagnare con le vignette, questa mania dei volti diventò follia». Se li studiava per ore. «Volevo anch’io riuscire a dipingere così. Quando sono andato in pensione mi sono iscritto a una scuola d’arte a Parigi. Eravamo tutti allievi di una certa età. L’insegnante ci metteva davanti a un ritratto classico e ci diceva di copiarlo. E a un certo punto tutta la classe, guardando il mio lavoro, scoppiava a ridere. Senza che io lo volessi, il mio dipinto si trasformava inevitabilmente in una caricatura».

Nella sua vita di caricature ne ha disegnate ventimila, pubblicate su importanti quotidiani e periodici, e poi raccolte in sessanta volumi. Nella sua casa, quadri e disegni si contendono lo spazio con gli strumenti musicali. Un oboe di legno prezioso è steso languidamente sulle cornici dei ritratti nella stanza da pranzo. Sul solito biliardo, che chiaramente nessuno usa per giocare, dormono corni e violini, splendono gli ottoni di trombe, tromboni, trombette. «Da bambino fui trombettiere. Poi ho dovuto smettere di suonare perché ci vuole tanto fato. Per lo sforzo mi venne l’ulcera».
Lauretta Colonnelli