Noi italiani siamo fortunati. Li possiamo ignorare per una vita; possiamo passarci davanti senza alzare lo sguardo per anni, ma prima o poi quel dipinto o quella scultura ci diranno qualcosa, perché l’opera d’arte è questo: oggetti inanimati come gli altri, ma che hanno in più la peculiarità e la pretesa di dirci qualcosa.
Sono sempre lì, uguali a loro stessi, e parlano come in una sinfonia di fondo; siamo noi che, solo a un certo momento, per un motivo o per l’altro, siamo più predisposti all’ascolto, e allora tendiamo orecchie e occhi al richiamo.
“L’opera d’arte è questo: oggetti inanimati come gli altri, ma che hanno
in più la peculiarità e la pretesa di dirci qualcosa.”

In questo senso non c’è nulla di più av- venturoso che immergersi, come in un libro già letto, in un quadro già visto: siamo noi che, crescendo nella nostra coscienza, lo vediamo con occhi diversi e gli facciamo dire una delle tante cose che ha sempre voluto dirci.
Certo, serve un minimo di curiosità per incominciare questo percorso.
Ogni opera d’arte, anche la più piccola e semplice, si porta dentro tutto il mondo di cui essa è il risultato e proprio di quel mondo, per noi, essa è l’origine. È per questa forte connotazione con una terra e con uno stile che, una volta compresi certi tratti del disegno o inflessioni del colore con la coda dell’occhio, si potrà subito esclamare: “è fiammingo”, o “toscano”, “genovese”, e così via.
È forse per tutte queste ragioni che, in un momento in cui la cultura è più avvilita invece che incentivata, nel lavoro di una casa d’aste la selezione dei dipinti antichi esula sempre più dalle scelte solamente economiche e si può dire che diventi un’operazione in un certo qual modo “culturale”. Nelle sale di Cambi in questi ultimi sei mesi si sono veduti (e venduti) una serie di notevoli dipinti: tra i fiamminghi, il trittico cinquecentesco di Pieter Coecke van Aelst, la decorativa e insieme colta opera di Adriaen van Utrecht e la magnifica coppia di nature morte con figure di Karel van Vogelaer. Non sono mancati gli evocativi fondi oro toscani, come le due tavole attribuite a Niccolò di Tommaso e a Parri di Spinello (quest’ultimo forse più di spettanza fiorentina e precisamente riconoscibile in quel Maestro del Borgo a Collina oggi identificato con Scolaio di Giovanni).

Interessantissimi i due piccoli dipinti su pietra che, non a caso, hanno più che quadruplicato la loro base d’asta: il Memento Mori su lapislazzuli e la scena di Perseo e Andromeda su paesina, derivante dalla famosissima composizione del Cavalier d’Arpino. Abbiamo assistito a delle gradite sorprese come, per esempio, l’ottimo risultato della deliziosa tela rappresentante Cristo Bambino e San Giovannino, lotto 1558 nell’asta 233, attribuibile al pittore genovese di nascita ma romano di elezione Giovanni Andrea Podestà. Ci siamo trovati davanti a magnifiche opere che, senza essere corredate da “paternità certe”, hanno avuto ottimi risultati per la loro indiscutibile bellezza e qualità pittorica. Mi riferisco soprattutto all’affascinante e perfettamente conservata tavola toscana del XVI secolo rappresentante il Cristo deposto, al bel Cherubino musicante bolognese del XVII secolo o alla dolcissima e sognante scena di Affidamento di un bimbo all’angelo custode, grande tela fiorentina della metà del XVII secolo.

Tipicissimo, invece, il grande dipinto di Domenico Piola rappresentante Abramo che caccia l’angelo e il figlio Ismaele, pubblicato sulla storica collana “Repertori Fotografici” Longanesi nel 1988. Ben sappiamo che non sarà con un discorso che si potrà invertire la tendenziale deriva culturale del nostro Paese, ma con il buon esempio e con buone scelte si potranno (ri)formare i gusti e, perché no, aiutare a riconoscere la bellezza della grande pittura.
Lorenzo Bianchini Massoni