“Voglio essere un’opera d’arte vivente” affermò un giorno, e da quel momento la sua ascesa fu solo una questione di tempo. Parliamo di Luisa Casati, la magnetica Marchesa che abbagliò tutti i suoi contemporanei, da Giovanni Boldini a Augustus John, da Man Ray a Jean Cocteau. Marcello Dudovich fu solo uno dei tanti artisti che provarono ad imprimere il suo fascino sfuggente su una tela.
Calderoni gioielli, si ispira proprio a lei, una delle più grandi femme fatales della storia. Dudovich tratteggia una donna dagli occhi pesantemente truccati e dalle labbra vermiglie, lo sguardo dritto verso l’osservatore, il portamento elegante e fiero. Emblematica immagine della seduzione per il tempo.

Ipnotica ed eccentrica, era solita passeggiare nuda, coperta solo da un mantello di pelliccia. Affittò a Venezia la residenza più maestosa della città, Palazzo Venier dei Leoni, successivamente acquistato da un’altra indimenticabile donna del secolo scorso, Peggy Guggenheim.
La marchesa fu una delle numerose amanti di Gabriele D’Annunzio, ma anche in questo caso lo fece alla sua maniera: la loro relazione non seguì gli umori del poeta, quanto piuttosto i suoi. Non ne divenne mai succube e lui la definì come l’unica donna che lo avesse sbalordito.
Corpo ossuto, viso asimmetrico, capelli indomabili, occhi verdi e immensi. Mai come in questo caso le imperfezioni si allearono al fascino: la Contessa divenne Musa per i maggiori artisti europei tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, diventando il simbolo di un’epoca. La folle società mondana e frivola che si stava avvicinando alla prima guerra mondiale.
La sua vita di eccessi e sfarzo le fece accumulare un debito di 25 milioni di dollari, che la costrinse a mettere all’asta nel 1930 il Palais Rose, il palazzo da lei acquistato a Parigi meno di dieci anni prima, e tutto ciò che conteneva: tra gli acquirenti di quella vendita ci fu anche Coco Chanel, l’icona dell’eleganza senza tempo.
La Contessa Casati morì a Londra il 1 giugno 1957, in povertà e in bancarotta. Il suo epitaffio, da Shakespeare, recita: “L’età non può appassirla, né l’abitudine rendere insipida la sua varietà infinita”.