Nell’ultimo numero di questa rivista un nostro articolo si concludeva ricordando quanto la fortuna dell’arte della maiolica si sia giocata con i capolavori realizzati nelle varie manifatture italiane del Cinquecento e “sparsi fin d’allora per tutta l’Europa nei gran Gabinetti come prodigi dell’arte”. Da quel momento si può dire sia iniziato il collezionismo e il gusto per la maiolica, maturato, poi ininterrottamente nel tempo, tra gli arredi degli studioli delle corti e degli umanisti: dapprima conservate in luoghi riservati, nelle Gallerie e nelle guardarobe, le maioliche quindi figurarono nei Musei privati, tra naturalia, artificialia e mirabilia, ed infine diventarono protagoniste del concatenato movimento del collezionismo europeo, da cui originarono anche le grandi raccolte pubbliche.
Dal Seicento la maiolica era gradita soprattutto se istoriata, particolarmente a soggetto raffaellesco, e compare in quasi tutti i gabinetti di curiosità dei regnanti d’Europa. Ne figuravano nell’inventario del 1653 dei beni d’arte di Cristina di Svezia, madrina dell’Arcadia Romana, collezionista colta e ricercata, ed altresì in quella del cardinale Mazzarino, i cui tesori d’arte si arricchivano nel 1648 con la vendita delle collezioni di Carlo I d’Inghilterra. In Italia, tra i primi casi più documentati va ricordato il secentesco “Museo delle Meraviglie” di Ferdinando Cospi, bolognese, che insieme ai corpi collezionistici Aldrovandi e Marsili, andrà ad arricchire le raccolte universitarie e poi l’ottocentesco Museo Civico Medievale.

Un raro campione di antico collezionismo potrebbe essere un pregevole albarello da farmacia cinquecentesco (fig. 1a), che conserva sotto il piede un’etichetta cartacea sulla quale è tramandato il nome di Paulus Aemilius Rondaninus Romanus / Camerae Apostolicae Clericus, unito allo stemma del prelato (1617-1668), ornato dei fiocchi cardinalizi (“Inquartato di verde e di rosso, il rosso caricato di un crivello d’oro alla banda caricata dello stesso, caricato di tre rondini di nero attraversate sul tutto”) (fig. 1b).
L’opera era destinata ad un corredo apotecario, come dimostra la scritta, tracciata in carattere gotico e in modo ben leggibile sulla zona mediana, “farina de lupini”, attorno alla quale si dispone la veste decorativa esotica più in voga nel Cinquecento, quella detta “alla porcellana”. Il fatto che nella collezione del cardinale Paolo Emilio Rondanini, fossero custodite opere di Faenza non deve destare meraviglia se si considera che egli proveniva da una nobile famiglia lombarda divisa in due rami: uno si era stabilito a Faenza e l’altro a Roma. Oltretutto i rapporti tra quello romano con quello faentino, la cui araldica è presente negli stemmari locali (fig. 1c), sono documentati nel tempo proprio attraverso la ceramica di Faenza che celebra i Rondanini su opere col loro stemma databili dal Cinquecento al Settecento.
Sul finire del Seicento i viaggiatori d’oltralpe durante il “Grand Tour” in Italia scoprivano la maiolica d’arte, non più sulle mense, ma riposta nelle antologiche raccolte di meraviglie dell’aristocrazia del tempo. Da quelle raccolte ben presto gran copia di oggetti passò nelle collezioni europee; caso eclatante è quello dei vasellami “da credenza” appartenuti ai Duchi d’Urbino. La passata letteratura ceramologica infatti ricorda che, sui primi del Settecento, “Cosimo III de’ Medici faceva dono a Sir Andrew Fountaine, Residente Britannico alla Corte granducale di Toscana, di metà della squisita suppellettile ceramica pervenutagli da Urbino con l’eredità di sua madre Vittoria della Rovere, nipote dell’ultimo Duca Francesco Maria II, accasata nei Medici. Ebbe così principio lacelebre raccolta dei Fountaine, che si disperse centocinquant’anni dopo”.

In Inghilterra il fenomeno del collezionismo della maiolica italiana è testimoniato anche attraverso i numerosi cataloghi di vendita, che si succedono dal terzo decennio del Settecento in poi, come, ad esempio, la collezione della nobilissima galleria d’arte italiana del “Signor Sterbini”, e quella del pittore Charles Jarvis: periodo che vede accentuarsi soprattutto il gusto per l’istoriato urbinate, il cosiddetto “Raphael ware”. A Parigi nel 1750 storica fu la dispersione dell’importante collezione di Pierre Crozat, mentre nel mondo tedesco, che si era già dimostrato precocemente sensibile verso la maiolica italiana sin dal Cinquecento, con gli Imhof e i Wittelsbach, si formano importanti raccolte di maioliche italiane. Ad esempio, più di mille maioliche, per lo più istoriate, figuravano nella collezione del duca Anton Ulrich di Braunschweig, tra smalti francesi, porcellane orientali, ecc., come riferisce una guida compilata nel 1710. Non meno importante era quella formata attorno al 1770 dal Duca di Württemberg, oggi nel Museo di Stoccarda.

In ambito italiano vanno ricordati almeno il Museo costituito dal cardinale Gaspare di Carpegna, nella prima metà del Settecento, che comprendeva monete, disegni, quadri e maioliche, entrati in seguito nel patrimonio della Biblioteca Vaticana. Così era anche quello tardo settecentesco senese di Galgano Saracini, che in una “Descrizione” del 1810 viene definito “vago e superbo museo”. Nell’Ottocento, nell’età della Restaurazione si assiste ad un rafforzamento dell’interesse per la maiolica sia in Francia sia in Inghilterra, vista ora anche come investimento finanziario, secondo una tendenza che si era già messa in moto nel secondo Settecento. In Germania, contemporaneamente, un posto particolare va riservato a Goethe, che nella sua dimora a Weimar dal 1817 conservava una notevole raccolta di maioliche italiane acquistate a Norimberga.
L’Italia continua ad essere meta di collezionisti e visitatori stranieri, che alimentano e sviluppano il culto per la maiolica italiana del Rinascimento. Le antiche dimore italiane serbavano capolavori secondo un collezionismo vissuto nella dimensione della sfera privata, avvolto in atmosfere particolari dal fascino aristocratico, lusso riservato a pochi, un’immagine di ricchezza quasi senza spazio per l’occhio, ma non priva di suggestioni, secondo una visione che si manterrà nella museologia ottocentesca. D’altronde il gusto dell’accumulazione sembra diventato nel secondo Ottocento un vero e proprio modello culturale; le case-museo europee (Jacquemart-André, Botkin, Basilewsky, Stibbert, Bagatti-Valsecchi, Davanzati, ecc.) offrono interni talvolta con ricostruzioni immaginarie della vita dei secoli passati, allestimenti con pareti sovraccariche di oggetti o dei tavoli ingombri, quasi fossero botteghe di antiquari, con una mescolanza di arredi d’arte decorativa d’ogni dimensione e tipologia, di cui non è facile afferrare la psicologia degli accostamenti.

Casa Pringsheim, per esempio, è un fantastico campione di questa visione collezionistica. Allestita all’interno di una dimora neo-rinascimentale tedesca, negli anni della Monaco “lucente”, è descritta da Thomas Mann come una cattedrale un po’ ossessiva di memorie e di reliquie intoccabili, soprattutto le maioliche concentrate nella sala da pranzo (fig. 2). In questo caso viene raffigurato, a piena policromia di qualità cristallina, un busto di “bella” negli abiti e nell’acconciatura del tempo, incorniciato da un largo festone in cui foglie di elegante stilizzazione si alternano a bulbi più o meno fioriti.
Nel quadro europeo inoltre un posto particolare occupava la collezione del Rev. Thomas A. Berney, formata attorno alla metà dell’Ottocento, nella cui vendita nel giugno del 1946 passarono anche maioliche di importanti proprietà, quali quelle di Lady Godfrey Faussett, di Sir William J. Stirling e di R.L.Fleming. Tra le 80 opere della Berney molti i capolavori, tra i quali spicca un saggio istoriato, databile al 1533-40, di un maestro della cerchia di Nicola da Urbino. Si tratta di una coppa nella quale, a piena superficie, è illustrato l’episodio in cui l’imperatore Tiberio in trono, dinnanzi al quale su un cavallo sta prigioniero il re di Cappadocia Archelao, dichiara sottomessa l’Asia (fig. 4a), come specifica anche la legenda tracciata sul verso “Chomo tiberio fe tributaia tuta lasia” (fig. 4b).

L’iconografia della scena è ricavata da una xilografia (fol. CCXLII- Ir) contenuta nell’edizione di Cassio Dione Historico Delle Guerre et Fatti de Romani, stampata a Venezia nel 1533 (fig. 4c), testo “volgarizzato”particolarmente sfruttato da questo maestro, che lo impiega anche per altri “istoriati”, compresa una versione pressoché identica dello stesso soggetto, oggi nell’Ashmolean Museum di Oxford: entrambe sono accomunate dal fatto che la scena è tratta in controparte rispetto alla xilografia, con eliminazione della figura in piedi di spalle a sinistra, ma anche dalla tavolozza limpida, che ha la stessa consonanza delle pose dei protagonisti, dai tratti anatomici dei personaggi molto affini, dal gusto per l’architettura, assente nel modello grafico, ispirata a quella del tempo. L’opera, passata in seguito nella collezione di John Scott-Taggart, vanta una notevole letteratura, che prima ha denominato il suo anonimo autore “Pittore del Marsia di Milano”e di recente invece lo indica come un ipotetico “Pittore S”, autore di una serie di opere che portano, oltre alla legenda, un segno somigliante a tale iniziale.

Per la loro acquisizione un ruolo fondamentale lo aveva avuto Otto von Falke, direttore del Kunstgewerbemuseum di Berlino, che aveva guidato Alfred Pringsheim, matematico e mecenate, a costituire la più importante collezione di maioliche italiane.
Monumentale fu anche il catalogo della stessa collezione, composto di tre volumi di grande formato, due usciti in date diverse (1914 e 1923) e il terzo predisposto intorno al 1930, ma pubblicato solo nel 1994. Attraverso quelle pagine si ha la reale percezione d’essere di fronte ad una straordinaria galleria di capolavori: 441 opere tra maioliche toscane, da quelle più “arcaiche” a quelle pienamente rinascimentali, ma anche faentine, urbinati, veneziane e umbre, dai tipi ancora gotici a quelli cinquecenteschi, sia a lustro sia in policromia, illustrate attraverso un magnifico corredo di riproduzioni in quadricromia, ricavate da pregevoli acquerelli di Annette von Eckardt: opera che ancora oggi costituisce una pietra miliare per la storia del collezionismo e indispensabile strumento per la ricostruzione dell’iter collezionistico delle più significative opere di maiolica italiana, confluite nelle principali raccolte pubbliche e private nel mondo. Scegliamo, come esempio, un albarello da farmacia che viene riprodotto alla fig. 99 della tavola LVI del I volume (fig. 3a), in modo così accurato da facilitare l’identificazione del suo originale, oggi custodito in una prestigiosa collezione privata italiana (fig. 3b).
L’opera è un raffinato saggio della fervida attività degli artefici di Deruta, che nel corso della prima metà del Cinquecento seppero raccogliere la lezione del Rinascimento umbro, trasferendola magistralmente su grandi “piatti da pompa”e su vasellami di corredi apotecari di rara qualità cromatica, sempre vivace ma anche sapientemente dosata, talvolta arricchita dell’effetto cangiante dorato del “lustro”.



Nel panorama europeo nei primi decenni del Novecento si formano molte altre realtà collezionistiche, significative per qualità e rarità delle opere. Un piatto “da pompa” di Deruta, databile entro la prima metà del Cinquecento, ad esempio, consente di ricordare le raccolte Imbert e Ducrot. La prima si era formata per desiderio di Alessandro Imbert (1865-1943), antiquario di origine francese, il quale, stabilitosi a Roma nel 1897, aveva raccolto nel tempo quasi cinquecento maioliche, come scrive Gaston Migeon nella premessa al “Catalogue Descriptifs” della mostra allestita a Parigi nel Pavillon de Marsan nel marzo del 1911.
Lo stesso piatto passò in seguito in uno dei più ricchi corpi italiani, quello formato dall’onorevole Vittorio Ducrot, disperso alla Galleria Pesaro di Milano nel 1934, come testimonia il catalogo di vendita (fig. 5a) curato da Gaetano Ballardini, allora direttore del Museo di Faenza. L’opera si riconosce appena attraverso un modesto bianco e nero che non dà risalto a tutto il suo valore qualitativo.

L’originale invece consente di affermare che siamo di fronte ad un superbo saggio di maiolica di Deruta del genere detto “amatorio”, come esplicita la legenda dedicatoria del cartiglio “FAVSTINA BELLA”, posto accanto ad un busto di donna effigiato frontalmente (fig. 5b); esso è realizzato in una sofisticata monocromia blu, arricchita di lustro dorato, che dà risalto all’abbigliamento di tessuti pregiati, alla elaborata acconciatura del tempo e allo sfumato dei lineamenti del volto della donna, dall’espressione di grazia schiva: elementi che fanno sì che opere come questa siano espressione di diretta discendenza dalla grande pittura umbra rinascimentale del primo Cinquecento.

Una ancor più articolata catena di passaggi collezionistici caratterizza la storia di un piatto, passato nelle raccolte de Rothschild e Damiron. Un efficacissimo disegno lo illustra nel catalogo di quest’ultima, costituita da Charles Damiron (fig. 6a), che si curò di tramandarne la fisionomia privata nel suo lavoro monografico“Majoliques Italiennes”, edito nel 1944.

Il disegno, pregevole testimonianza storiografica, quasi nulla toglie all’immagine che poniamo a fianco dell’originale, oggi conservato in una importante raccolta italiana (fig. 6b).

La sua osservazione diretta conferma che si tratta di un notevole saggio di primo Cinquecento, con al centro un medaglione con un profilo virile classico, laureato e vestito di clamide, di singolare resa stilistica specie nell’allungamento orizzontale della barba puntuta, che conferisce un’acutezza quasi caricaturale al personaggio. Non meno interessante è il verso dell’opera ornata del cosiddetto motivo a“petal-back”, cioè una corolla stilizzata a petali tratteggiati, similmente presente sia nella produzione senese (così, ad esempio, un piatto con stemma Sani della collezione Chigi Saracini di Siena) sia in quella derutese del primi del Cinquecento, della quale sulla tesa del piatto viene ripreso il tipico repertorio complementare al tema centrale, a settori regolari con “grottesche” e “occhi di penna di pavone”.
Nell’ambito collezionistico del primo Novecento un posto particolare occupa la figura di Ercole Canessa (1868-1929), collezionista e mercante, la cui raccolta includeva mobili, sculture, bronzi, antichità classiche e ceramiche, che consente di spostarci fuori dai confini europei, in particolare alle due sedute di vendita della sua raccolta avvenute a New York nel 1924 e nel 1930. Apparteneva a Canessa un albarello, già collezione Walters Caracciolo a Taormina, poi passato in quella del banchiere americano Mortimer L. Schiff, di New York, che aveva un’imponente raccolta, dispersa nella vendita a Londra da Christie’s nel 1938, comprendente cimeli di maiolica dal periodo “arcaico” fino al primo trentennio del Cinquecento.

L’albarello, riprodotto in una tavola del suo ricco catalogo, curato da Seymour de Ricci nel 1927 (fig. 7a), aveva una destinazione apotecaria, come indica il cartiglio verticale la cui scritta“AB INNER IRIA”, che potrebbe riferirsi ad un preparato proveniente da una regione orientale; esso si snoda davanti ad un ritratto rinascimentale, con un busto d’uomo canonicamente di profilo, tracciato con un magistrale ductus lineare, con i capelli accuratamente pettinati a caschetto sino alle spalle e con estremità arricciata, in parte coperti da un cappello con lunga punta in avanti, posto entro cartella “a risparmio”, che lo separa dalla rimanente superficie che ospita foglie accartocciate, di gusto gotico floreale, tipiche della maiolica italiana del secondo Quattrocento (fig. 7b, c).
È tipologia ancora piuttosto problematica da un punto di vista attributivo, poiché si presenta come il classico prodotto dell’osmosi che si venne ad instaurare sullo scorcio del Quattrocento fra vari centri della maiolica italiana, in questo caso tra Pesaro e Napoli.

Lo stesso Seymour de Ricci attesta come nella collezione Schiff si conservasse un altro interessante saggio di ritrattistica rinascimentale (fig. 8a), racchiuso all’interno di una coppa, oggi nel Toledo Museum, realizzato nella tecnica“a graffito”su ingobbio, con superficie variegata dalle tipiche maculature di ossidi di rame e ferro.

Per l’aspetto stilistico l’opera è strettamente correlabile ad altra redazione, già nella collezione Campe di Amburgo (fig. 8b), al punto da ipotizzare che si tratti della stessa mano d’artefice; accomunano infatti le due redazioni il ductus del bulino che incide senza esitazioni la piegatura del sopracciglio e della bocca, il cappello piumato, la pettinatura a caschetto a tre ondulature, la formella polilobata gotica che incornicia il ritratto, rigorosamente di profilo secondo la ritrattistica delle medaglie del Quattrocento: tant’è che raccogliamo il suggerimento venuto dal privato possessore dell’opera, che ipotizza possa essere il ritratto di Gianfrancesco Gonzaga, Signore di Sabbioneta, del quale in effetti, osservando la medaglia dell’Antico (Pier Jacopo Alari Bonacolsi), si colgono alcune caratteristiche fisionomiche (fig. 8c). Se si considera inoltre che il“graffito”nel Quattrocento è fenomeno prevalentemente sviluppato in area padana, con molti centri produttori concentrati tra Lombardia,Veneto ed Emilia-Romagna, ecco che queste due opere si impongono quali raffinati campioni di vasellami di“graffito padano rinascimentale”.

Con la dispersione delle grandi raccolte europee e la conseguente formazione e organizzazione dei musei inglesi, francesi e tedeschi, dalla metà dell’Ottocento si avviano anche gli studi ceramologici e si assiste alla formazione di vere e proprie scuole nazionali, che acquistano autorevolezza soprattutto attraverso i primi cataloghi museali.

Questi furono capaci di illuminare la materia senza i toni municipalistici della ceramologia peninsulare postunitaria, cioè, come riconosce Gaetano Ballardini, “fu degli stranieri aprire le strade maestre nel groviglio delle ambizioni paesane”, ambizioni che però nel corso del Novecento sono andate trasformandosi verso quella che lo studioso chiama “coscienza ceramica”, grazie alla quale gli studi italiani si sono via via adeguati a un sempre più comune approccio culturale europeo.
Carmen Ravanelli Guidotti